NELL'ART. 473BIS C.P.C. UNA DISPOSIZIONE AD HOC PER LE DONNE VITTIME DI VIOLENZA DOMESTICA
8 marzo 2024
In questa giornata che celebra le donne, un pensiero va inevitabilmente a tutte coloro che subiscono o hanno subito violenze all’interno della mure domestiche. La riforma Cartabia, con il suo nuovo rito per le controversie in materia di persone, minorenni e famiglie, ha introdotto l’art. 473bis c.p.c. con una sezione interamente dedicata alle violenze domestiche o di genere, per disciplinare tutti quei procedimenti ove sia allegate condotte di violenza poste in essere da una parte nei confronti dell’altra. L’art. 473bis. 40 c.p.c. e seguenti, infatti, permettono l’applicazione di tale disciplina in tutte le forme di violenza: fisica, economica, morale e psicologica. Tali procedimenti possono essere autonomi oppure inseriti all’interno di un procedimento di separazione-divorzio; il giudice può abbreviare i termini ordinari della metà, disporre mezzi di prova anche al di fuori dei limiti di ammissibilità previsti dal codice civile e, con il decreto di fissazione dell’udienza, chiedere alle autorità competenti informazioni circa l’esistenza di procedimenti relativi agli abusi e alle violenze allegati. Durante l’istruzione, il giudice provvede all’interrogatorio delle parti (che possono anche non comparire contemporaneamente), assume informazioni da persone informate dei fatti ed acquisisce atti e documenti da uffici pubblici o da forze dell’ordine. All’esito dell’istruzione, anche sommaria, il Giudice, se ravvisa la fondatezza delle allegazioni, adotta i provvedimenti più idonei a tutelare la vittima, come da art. 473 bis. 70 c.p.c., la cui durata è determinata dal Giudice che ne determina altresì la durata (che non può essere superiore ad un anno e può essere prorogata su istanza di parte se ricorrono gravi motivi); il Giudice può, quindi, ordinare al coniuge/convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione di tale condotta e può disporne l’allontanamento dalla casa familiare, oltre al divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima (in particolare: al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia di origine, alle scuole frequentate dagli eventuali figli). Oltre a ciò, il Giudice può disporre l’intervento degli assistenti sociali e/o delle associazioni che abbiano come fine statutario l’accoglienza di donne vittime di abusi.
ASSEGNO DIVORZILE E LIQUIDAZIONE UNA TANTUM: PRO E CONTRO
18 settembre 2023
L’art. 5 della L. 898/1970 prevede che con la sentenza che pronuncia lo scioglimento del matrimonio contratto con rito civile o la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con rito concordatario, è possibile disporre a carico di un coniuge di somministrare periodicamente all’altro un assegno quando quest’ultimo “non ha i mezzi adeguati o non può procurarseli per ragioni oggettive”, tenendo conto, dice la Legge, delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, valutando tutti i suddetti elementi alla luce della durata del matrimonio.
Il medesimo articolo di Legge prevede che, in caso di accordo delle parti, la corresponsione può avvenire in un’unica soluzione che dovrà essere ritenuta equa dal Tribunale.
Quali sono le differenze tra le due soluzioni?
Innanzitutto, una volta optato per la liquidazione del rapporto in un’unica soluzione, l’ex coniuge che ne beneficia non potrà più avanzare alcuna pretesa di revisione, a differenza, invece, dell’assegno divorzile che deve essere rivalutato annualmente secondo i criteri ISTAT e che può essere soggetto a revisione nel caso sopravvengano giustificati motivi (art. 9 L. 898/1970).
In secondo luogo, la liquidazione una tantum dà una certezza in relazione al versamento immediato e sicuro per chi lo percepisce ed ha il vantaggio di non essere soggetta a tassazione, ma non è deducibile da chi la versa a differenza dell’assegno divorzile.
Infine, l’ex coniuge destinatario della liquidazione una tantum può risposarsi immediatamente, mentre la corresponsione dell’assegno divorzile cessa se l’ex coniuge destinatario di tale assegno passa a nuove nozze.
Per un ulteriore approfondimento si rinvia all’articolo “I DIRITTI DEL CONIUGE CHE PERCEPISCE L’ASSEGNO DIVORZILE” (15.05.2023).
I DIRITTI
DELL'EX CONIUGE
CHE PERCEPISCE L’ASSEGNO DIVORZILE
15 maggio 2023
Cosa succede a chi percepisce l’assegno divorzile in caso di decesso dell’ex coniuge? La legge 898/1970, all’art. 9, in tal caso, prevede che l’ex coniuge ancora in vita, titolare dell’assegno divorzile, abbia diritto alla pensione di reversibilità se il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico dell’ex coniuge defunto è anteriore alla sentenza di divorzio e se l’ex coniuge in vita non è passato a nuove nozze.
Nel caso in cui vi siano più ex coniugi in vita che presentano i requisiti per l’attribuzione della pensione di reversibilità oppure che oltre all’ex coniuge vi sia un coniuge vedovo superstite, il Tribunale dovrà intervenire per ripartire tra i superstiti la pensione di reversibilità del defunto, tenendo conto della durata di ciascun rapporto, comprensiva sia degli anni di matrimonio che delle eventuali convivenze prematrimoniali.
Il diritto a percepire una quota della pensione di reversibilità del defunto si estingue nel momento in cui il beneficiario passa a nuove nozze: la sua quota sarà così destinata agli altri beneficiari se presenti.
All’ex coniuge superstite, percettore dell’assegno divorzile e non passato a nuove nozze, potrebbe spettare anche un assegno periodico a carico dell’eredità, qualora versi in stato di bisogno (art. 9 bis L. 898/1970); in tal caso, il Tribunale valuterà l’entità di tale assegno tenendo conto del valore totale dell’eredità, dell’entità del bisogno, dell’eventuale pensione di reversibilità, del numero e della qualità degli eredi e delle loro condizioni economiche. Il diritto a tale assegno si estingue se il beneficiario passa a nuove nozze o viene meno il suo stato di bisogno.
Un’ulteriore tutela per l’ex coniuge, percettore dell’assegno divorzile e non passato a nuove nozze, è costituito dal diritto a ricevere il 40% dell’indennità di fine rapporto maturata dall’altro coniuge negli anni coincidenti con il matrimonio (art. 12 bis L. 898/1970), anche se il TFR è stato percepito dopo la sentenza di divorzio.
Occorre precisare che la quota della pensione di reversibilità, l’assegno a carico dell’eredità e la percentuale del TFR, non spettano all’ex coniuge che è stato liquidato, al momento del divorzio, in un’unica soluzione.
Le stesse regole si applicano alle persone dello stesso sesso che abbiano contratto un’unione civile; infatti, la Legge 76/2016 afferma che alle unioni civili si applicano gli art. 9, 9 bis e 12 bis della Legge 898/1970.
CHI "EREDITA" IL TFR?
9 gennaio 2023
Al momento della cessazione del rapporto di lavoro, dovuta a qualsiasi causa, spetta al lavoratore il trattamento di fine rapporto (ex art. 2120 c.c.); l’indennità di mancato preavviso (ex art. 2118 c.c.) non spetta invece al lavoratore in caso di risoluzione del rapporto di lavoro per dimissioni volontarie e licenziamento per giusta causa.
Ma a chi vengono destinate tali competenze in caso di decesso del lavoratore?
La risposta attinge sia al diritto del lavoro che al diritto di famiglia, infatti l’art. 2122 c.c. individua come beneficiari di tali competenze il coniuge (o alla persona dello stesso sesso con cui il lavoratore abbia contratto un’unione civile), i figli e, nel caso in cui fossero a carico del prestatore di lavoro, i parenti entro il terzo grado (es. lo zio, ma non il cugino, il fratello e il nipote, i genitori) e gli affini entro il secondo (es. suoceri, cognati, ma non i nipoti acquisiti).
Le indennità in analisi non entrano nell’asse ereditario (per cui non sono soggette alle imposte di successione) e la loro divisione deve essere fatta secondo accordi fra gli aventi diritto (in mancanza verrà disposta dal giudice che valuterà i bisogni di ciascuno).
E’ possibile per il lavoratore destinare le proprie (future) competenze tramite testamento solo in caso di assenza degli aventi diritto su indicati (come da Sentenza n. 8/1972 della Corte Costituzionale).
L’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO, L’INTERDIZIONE E L’INABILITAZIONE
10 ottobre 2022
La figura dell’amministratore di sostegno è stata introdotta con la Legge 6 del 2004; è un istituto che mira alla cura della persona stessa, non solo del suo patrimonio, ed è rivolta a colui il quale, per effetto di un’infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, sia impossibilitato a provvedere ai propri interessi, anche parzialmente o temporaneamente. Il beneficiario di tale misura di protezione conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno, potendo compiere tutti gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana. Ciò significa che l’amministrazione di sostegno deve operare solo per determinati atti precisati nel provvedimento di nomina dell’amministratore, atti in cui la capacità del beneficiario o è totalmente esclusa (e quindi gli atti devono essere compiuti in sua rappresentanza dall’amministratore) o è limitata (e quindi gli atti richiedono la necessaria assistenza dell’amministratore); al beneficiario, che può essere sottoposto a tale istituto anche temporaneamente, si deve riconoscere la capacità di esprimere bisogni e desideri, cui l’amministratore deve tenere conto.
Contrariamente, nel caso in cui l’abituale infermità di mente renda incapaci di provvedere ai propri interessi, si ha l’interdizione (art. 414 c.c.), necessaria per assicurare un’adeguata protezione; l’interdetto è privo della generale capacità di compiere atti giuridici, con piccole eventuali eccezioni, ed è affidato a un tutore, il quale provvede sia alla cura dei beni che alla persona dell’incapace; se, invece, l’infermità di mente non è così grave da giustificare l’interdizione, si può ricorrere all’inabilitazione (art. 415 c.c.) che limita solo la capacità di compiere gli atti di straordinaria amministrazione e affida l’inabilitato a un curatore, il quale si occupa prevalentemente degli interessi patrimoniali dell’incapace (esempi riportati dal codice civile sono il prodigo e chi abusa abitualmente di alcol o stupefacenti).
Di conseguenza, i beneficiari dell’amministrazione di sostegno, gli interdetti e gli inabilitati sono tutti in stato di incapacità legale: assoluta per gli interdetti, relativa per i beneficiari dell’amministrazione di sostegno e per gli inabilitati.
IL MATRIMONIO PUTATIVO
11 luglio 2022
Il codice civile prevede, come cause di invalidità del matrimonio, le seguenti fattispecie: la mancanza di stato libero (non può contrarre matrimonio chi è già vincolato da un matrimonio o da un'unione civile tra persone dello stesso sesso), l’esistenza di vincoli di parentela, affinità, adozione (non possono contrarre matrimonio ad esempio gli ascendenti e i discendenti in linea retta, i fratelli e sorelle, gli zii e i nipoti, il suocero e la nuora, la suocera e il genero, l’adottante e l’adottato, i figli adottivi della stessa persona), il delitto (non possono contrarre matrimonio due persone di cui una è condannata per omicidio o tentato omicidio del coniuge dell’altra), la minore età (il sedicenne può essere autorizzato dal tribunale solo per gravi motivi), l’interdizione per infermità mentale, l’incapacità di intendere di volere (anche con natura transitoria), la violenza (quando il consenso è stato estorto con violenza o determinato da un timore di eccezionale gravità), l’errore sulle qualità personali dell’altra persona (come ad esempio la scoperta di una malattia fisica o psichica, di una diversa inclinazione sessuale, di una dichiarazione di delinquenza abituale, lo stato di gravidanza causato da persona diversa dal soggetto caduto in errore).
Cosa succede se il matrimonio viene dichiarato invalido? Gli sposi tornano a godere dello stato libero, ma può figurarsi la fattispecie del matrimonio putativo ove la legge salva gli effetti prodotti dal matrimonio tra la celebrazione e la dichiarazione di nullità. Va precisato che, se solo uno degli sposi era in buona fede, gli effetti del matrimonio putativo si producono solo per lui; inoltre, il matrimonio dichiarato nullo ha gli effetti del matrimonio valido rispetto ai figli nati.
GLI EFFETTI DEL MANCATO MATRIMONIO
11 aprile 2022
Cosa succede se uno dei due fidanzati, dopo aver annunciato il prossimo matrimonio e averlo in parte organizzato, affrontando le relative spese, decide di non sposarsi più?
Iniziamo subito con il precisare che la promessa di matrimonio non obbliga a contrarlo; ciascun fidanzato ha il diritto di cambiare idea. Fatta questa importante precisazione, ci sono tuttavia delle conseguenze che questo mutamento di decisione può causare.
Innanzitutto, entrambe le parti possono chiedere la restituzione dei doni fatti a causa della promessa di matrimonio (ad esempio l’anello di fidanzamento); la domanda è proponibile entro un anno da giorno in cui si è avuto il rifiuto di celebrare il matrimonio (art. 80 c.c.).
L’art. 81 c.c. prevede, inoltre, una tutela ancora maggiore per il partner “abbandonato”, ossia un diritto al risarcimento del danno subito se concorrono due condizioni: se la promessa di matrimonio era stata fatta vicendevolmente per atto pubblico o per scrittura privata, oppure se risultava dalla richiesta di pubblicazione e se l’altra parte rifiuti il matrimonio senza giustificato motivo.
Il risarcimento consisterà nella rifusione delle spese fatte e per le obbligazioni contratte a causa della promessa di matrimonio (entro il limite in cui le stesse corrispondono alle condizioni delle parti).
Lo stesso risarcimento è dovuto dal promittente che, con propria colpa, ha dato giusto motivo al partner di rifiutare le nozze.
La domanda di risarcimento non è proponibile dopo un anno dal giorno del rifiuto di celebrare il matrimonio. Di conseguenza, l’obbligo di contrarre matrimonio non grava sopra nessuno, né su chi cambia idea per colpa del partner né su chi decide in autonomia di non sposarsi più; tuttavia è bene sapere che su chi causa il mancato matrimonio, grava l’eventualità di dover ristorare l’ex partner.
IL REGIME PATRIMONIALE DEI CONIUGI
10 gennaio 2022
Il regime patrimoniale legale della famiglia, che si instaura tra gli sposi, in mancanza di diversa volontà, è quello della comunione dei beni (art. 159 Codice Civile).
Occorre precisare che tale comunione ha per oggetto solo gli acquisti compiuti, insieme o separatamente, durante la vita matrimoniale, dopo la celebrazione delle nozze; si avrà contitolarità immediata sui beni immobili e mobili se comprati da un coniuge o da entrambi dopo le nozze, nonché sugli eventuali investimenti come titoli di stato o azioni e sull’azienda costituita dopo il matrimonio e gestita da entrambi i coniugi.
Non sono oggetto di comunione i beni di cui ciascun coniuge era già proprietario prima del matrimonio, i beni personali, i beni pervenuti a un coniuge per donazione o successione (anche se dopo il matrimonio), i beni destinati all’esercizio della professione (almeno che non si tratti di beni inerenti un’azienda costituita dai coniugi dopo il matrimonio), i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno.
Tuttavia, i coniugi possono ampliare ulteriormente il regime della comunione legale, a mezzo atto pubblico, optando per una “comunione convenzionale”, inserendo tra i beni oggetto di comunione anche quelli non previsti dalla legge, come i beni acquistati prima del matrimonio o quelli ricevuti per successione.
Come previsto dall’art. 191 del Codice Civile, la comunione si scioglie in caso di a) la dichiarazione di assenza o di morte, b) annullamento, c) per lo scioglimento o per la cessazione degli effetti civili del matrimonio (nel caso di divorzio non preceduto dalla separazione), d) per la separazione personale, e) per la separazione giudiziale dei beni, f) per mutamento convenzionale del regime patrimoniale, g) per il fallimento di uno dei coniugi.
Con la riforma del 2015, nel caso di separazione dei coniugi, la comunione si scioglie nel momento in cui il presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purchè omologato.
Al momento dello scioglimento della comunione, vengono divisi in parti uguali fra i coniugi anche i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati, nonchè i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione (esempio: canoni di locazione).
E’ ormai noto, tuttavia, che i coniugi possono optare per il regime della separazione dei beni, per tramite del quale ciascuno conserva la titolarità esclusiva dei beni (mobili ed immobili) acquistati durante il matrimonio, dei proventi dell’attività lavorativa e degli investimenti. Ciascun coniuge conserva anche la gestione del proprio patrimonio, non cadendo mai i beni di un coniuge nella disponibilità dell’altro. Occorre precisare, tuttavia, che nel caso di acquisto congiunto di un bene, i coniugi dovranno specificare le quote di proprietà spettanti a ciascuno, altrimenti la titolarità del bene sarà al 50%.
Per aderire a tale regime occorre o una dichiarazione nell’atto di matrimonio oppure una stipulazione postuma tramite atto pubblico (a pena di nullità). Il regime di separazione cessa quando i coniugi, tramite un’apposita convenzione matrimoniale, adottino un diverso regime.
Il regime di separazione dei beni è ormai il regime patrimoniale più diffuso, un po’ perché non c’è una chiara consapevolezza tra le persone di quali beni rientrino nel patrimonio comune in caso di comunione legale, un po’ perché appare il regime più snello e tutelante; in realtà tale regime è sicuramente indispensabile a chi esercita un’attività imprenditoriale, posto che tale regime mette a riparo il proprio coniuge da eventuali creditori ed è più conveniente solo per il coniuge che ha una maggior prospettiva di guadagno.
LE CONSEGUENZE DELL’ADDEBITO DI RESPONSABILITA’ NELLA SEPARAZIONE
13 settembre 2021
L’art. 151 del Codice civile prevede che il Giudice, con la pronuncia di separazione dei coniugi, può dichiarare, se ricorrono le circostanze, a quale coniuge addebitare la separazione “in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”; l’art. 143 c.c. enuclea come doveri matrimoniali la fedeltà, l’assistenza morale e materiale, la collaborazione nell’interesse della famiglia e la coabitazione.
Per far sì che venga addebitata la separazione a un coniuge è necessario che l’altro non solo dimostri che ci sia stata una violazione dei doveri coniugali sopracitati, ma anche che tale violazione sia stata causa determinante della crisi coniugale.
La pronuncia di addebito a carico di un coniuge ha importanti conseguenze economiche; innanzitutto, l’art. 156 c.c. riporta come il Giudice può stabilire a vantaggio del coniuge che non abbia “adeguati redditi propri” un assegno di mantenimento, solo nel caso in cui allo stesso non sia stata addebitata la separazione (resta fermo a carico del coniuge incolpevole soltanto l’obbligo di prestare gli alimenti in caso di bisogno).
In secondo luogo, il coniuge cui è stata addebitata la separazione perde i diritti successori, rimanendo solo il diritto a percepire un assegno vitalizio a carico dell’eredità (calcolato in base alle sostanze dell’eredità, alla qualità e al numero degli eredi) se al momento dell’apertura della successione percepiva gli alimenti a carico del defunto (art. 548 c.c.); tale assegno non potrà comunque avere entità superiore a quella della prestazione alimentare goduta.
Si ricorda, quindi, che il coniuge cui non è stata addebitata la separazione ha gli stessi diritti successori del coniuge non separato, in tal caso per far perdere la qualità di erede all’altro coniuge occorrerà divorziare.